
Se la violenza della colonia non cessa di mordere il presente in troppe regioni del mondo e un capitalismo sempre più arrogante si abbatte massicciamente sui gruppi sociali più esposti, la crisi ambientale e un estrattivismo cieco aggiungono nuovi motivi di sofferenza alimentando esodi, conflitti o lasciandoci sempre più muti di fronte alle devastazioni del mondo, di cui Gaza e tutti i Territori Occupati della Palestina sono la più vivida e bruciante realtà.
Di queste violenze i saperi accademici sono spesso complici attraverso la riproduzione di un’altra forma di ingiustizia (quella epistemica) e un altro genere di razzismo (quello diagnostico).
È all’interno di questo scenario che i lavori di Frantz Fanon, psichiatra e militante politico, non cessano di essere ripensati, in Italia e all’estero, e sono numerose le pubblicazioni, che lasciano trasparire ben più di una frizione e che rendono gli scritti di Fanon vivi e il suo pensiero “inarchiviabile”.
A cento anni dalla sua nascita è necessario tornare al gesto e al pensiero di chi aveva conosciuto in tutti i suoi profili la retorica dei diritti umani, denunciando la brutalità di cui persino la medicina e la psichiatria si erano fatte complici in epoca coloniale. Dalle pagine dell’opera di Frantz Fanon traiamo materia per interrogare le contemporanee espressioni dell’alienazione intrecciate alle espressioni del comando imperialistico.